Torri, rovine
Torri o piuttosto tentativi di torri, colonne o pilastri, sforzi di verticalità contraddetti dalla gravità e dall’erosione. In bilico tra costruzione ed erosione. Giganti dai piedi d’argilla? Audaci e fragili.
Altri palazzi più massicci ma altrettanto minacciati, corrosi da dentro, invasi dal vegetale la cui struttura ramificata sembra più vitale, più robusta.
Erosione, infiltrazioni, implosione. Cedimenti, crolli…e tentativi di rattoppare, di sorreggere.
Alcuni ricordano rovine del centro storico di Palermo, rovine antiche in mezzo alla vegetazione che le colonizza. O le rovine azteche ormai colonizzate dalla foresta vergine. Altre ricordano forse le costruzioni di terra e pietra e i villaggi che ho visto nel sud tunisino, improvvisamente allagate e abbandonate.
Dall’infiltrazione pure minima d’acqua nasce il muschio, l’erbaccia, l’arbusto parassita.
Dai muri di terra secca allagati, solo fango e polvere.
Altre ancora rimandano forse alla frane, le colate distruttivi di fango dopo alluvioni o piogge torrenziali. Sapere che ho lavorato a questa serie mentre succedeva il dramma di Giampillieri.
Torri e palazzi come castelli di sabbia che, infiltrati, si sgretolano silenziosamente ed improvvisamente sprofondano…
Una trasposizione del lavoro di fotomontaggio che vedeva sedimentate immagini delle rovine del centro storico di Palermo, scheletri di palazzi incompiuti e rami/radici incontrollabili dell’albero ficus magnolioides (Babele, 2005). E cioè un intreccio di forze dinamiche contraddittoria, un caos in bilico.
Si potrebbe forse collegare anche ad una ricerca di scultura del 1996 (Beaux efforts, Bologna), delle colonne di cera strette ed esitanti, dalla sagoma instabile.
La struttura iniziale del disegno nasce dall’impronta di elementi di lego, piccoli “mattoni”rettangolari che, sovrapposti ed accumulati, pretendono di edificare torri che toccano il cielo. Babele dalla paziente edificazione a partire da un modulo miniatura che rimanda al gioco di bambini e all’installazione Mobile city2.
Il lavoro con gli inchiostri permette appunto una pratica di alterazione del disegno iniziale, di cancellazione parziale della struttura, rimane una traccia, un fantasma della struttura architettonica. Dominano colori sepia, grigi a ricordare la pietra, la terra, la polvere, il cemento e vari verdi ad evocare l’umido, la muffa, le radici, il vegetale che si nutre del materiale eroso.
Gli inchiostri tra di loro si penetrano per infiltrazione capillare, aleatoria, incontrollabile. I palazzi diventano cosi “spettri” di palazzi, in uno stato di decomposizione o perlomeno di incertezza…
Forse si può leggere un senso più generale, vedere anche in questi tentativi di costruzioni castelli in aria, illusioni senza fondamenta consistenti, disillusioni esistenziali?
Anne-Clémence de Grolée
settembre 2010